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Empatia fondamentale per le aziende, ma non è possibile improvvisarla

L’emergenza pandemia non è bastata di per sé a cambiare l’approccio delle imprese nei confronti delle proprie risorse umane, neppure in un ambito come quello della ristorazione, particolarmente colpito da questa ultima crisi.  

Ne è convinto Gianpaolo Grossi, General Manager della Roastery di Starbucks di Palazzo Broggi, in piazza Cordusio, a Milano: 

“Sicuramente nel pre-Covid il mondo della ristorazione era concentrato esclusivamente sui risultati e mirava solo a questo aspetto, manifestando poca attenzione verso l’essere umano e i suoi bisogni. E, soprattutto, non c’era ascolto. Con il Covid ci siamo sentiti tutti vulnerabili alla stessa maniera e ci siamo trovati nelle stesse condizioni. Questa situazione, secondo me, ha messo in evidenza la necessità di iniziare a lavorare molto più empaticamente, anche se la parola empatia è spesso utilizzata da persone che non sanno minimamente di che cosa si sta parlando”.   

Secondo il General manager di Starbucks, infatti, la pandemia resta infatti un’emergenza, mentre l’empatia è qualcosa che può essere sviluppata soltanto in seguito a un percorso decisamente più lungo. 

“La nostra azienda lavora in modo empatico da 50 anni, quello che facevamo nel pre-pandemia lo abbiamo replicato durante il lockdown, tirandoci su le maniche come prima, anche se con necessità e priorità diverse. L’aspetto safety è diventato predominante, ma se ci pensiamo bene si tratta di qualcosa che si sarebbe dovuto curare anche in precedenza, come d’altronde abbiamo sempre fatto in Starbucks. Tutto questo per dire che l’empatia non si inventa, fa parte dell’educazione delle persone: come, ad esempio, sapere dire grazie al prossimo ed essere generosi con gli altri, tutte cose che non possono essere inventate di punto in bianco con la pandemia”.  

Cosa vuol dire essere empatici  

Ma cosa vuol dire nel concreto essere empatici all’interno di un’organizzazione come Starbucks, che comunque mira a fare utili e profitti?  

“Tutte le persone sono focalizzate sui risultati, è normalissimo: ognuno di noi lavora e si impegna per raggiungere un risultato, come ad esempio una promozione di lavoro. Occorre imparare a comprendere che le persone sono guidate dalle competenze, dalle capacità individuali ma anche dalle emozioni e sentimenti. Le competenze e le capacità sono fondamentali, ma un leader deve imparare a influenzare gli aspetti emotivi attraverso l’empatia. Questo vuol dire riuscire a toccare corde come motivazione, soddisfazione, partecipazione, coinvolgimento, riuscendo così a far fare un passo in più alle persone del proprio team”.  

Ma se l’empatia non può essere acquisita come diretta conseguenza della pandemia, questo non esclude il fatto che ciascuno di noi non possa fare degli sforzi in tal senso. “Son sempre dell’idea che il proprio sistema possa essere modificato, non ci si deve aspettare che lo facciano gli altri al proprio posto. Il percorso verso l’empatia resta innanzitutto uno sforzo prettamente individuale”.  

 Curare il proprio team per curare i clienti  

In che modo un’azienda come Starbucks è riuscita a costruire la sua fama di estrema attenzione ai bisogni dei clienti, tanto che questi locali sono considerati in maniera unanime come un luogo piacevole in cui passare del tempo? La questione, secondo, Gianpaolo Grossi, General manager della Roastery di Starbucks di Palazzo Broggi, in piazza Cordusio, a Milano, va ribaltata: 

“Mi son sempre chiesto come mai un operatore, quando assume questa veste, si scorda di tutto quello che ha vissuto come cliente. Fondamentalmente il lavoro che bisogna fare con le proprie persone in azienda per farle crescere è insegnarle a guardare le cose da un punto di vista diverso”.  

Arricchendo così l’esperienza finale del cliente, anche se una distinzione importante va sempre fatta tra esperienza oggettiva e soggettiva. Ci sono infatti tantissime aziende che lavorano tantissimo sull’oggettività delle cose che fanno, perché hanno magari prodotti di qualità incredibile, ma che magari tendono a standardizzare l’esperienza dei propri clienti, senza flessibilità o variazioni di sorta.  

Prima regola: curare la partner experience  

L’esperienza soggettiva, invece, è quando l’operatore riesce a capire le aspettative dell’utente, che possono essere molto diverse tra di loro: 

“Se la mattina il mio cliente vuole soltanto un caffè veloce, io devo essere pronto a farlo. Allo stesso tempo, se si vuole godere l’esperienza e viverla al 100% devo essere pronto lo stesso a garantirla. Qui interviene il nostro barista, il partner di Starbucks che deve essere pronto a interpretare le aspettative dei clienti. La nostra ottica, non a caso, è We always make right, che non vuol dire che siamo dei fenomeni e facciamo sempre le cose per bene, ma che se sbagliamo siamo sempre pronti a correggerle in corsa”.  

Per assicurare una buona customer experience serve però prima garantire un'ottima partner experience, ossia nel caso di Starbucks quella dei baristi: 

“Se la mia azienda non mi fa vivere la mia esperienza in azienda in maniera positiva e, dunque, non mi nutre, non mi ispira, automaticamente i dipendenti non possono restituire un’esperienza positiva ai clienti finali. Quindi va bene essere customer first, ma se non ti curi delle tue persone del tuo team puoi stare certo che il tuo cliente non sarà soddisfatto. Quindi bisogna lavorare su di loro in primis, che poi si prenderanno cura dei clienti finali”, conclude Grossi.  

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